Cosa succede all’interno del carcere di Cosenza? A sentire quello che dicono alcuni collaboratori di giustizia accade un po’ di tutto. Le loro propalazioni sono agli atti della maxi-indagine antimafia che il 1 settembre 2022, ha portato a 202 misure cautelari, in larga parte confermate dal tribunale del Riesame di Catanzaro. I pentiti cosentini, prima di “saltare il fosso”, hanno vissuto momenti in cui erano dalla “parte sbagliata” della società civile e venivano a conoscenza di episodi di vita criminale, raccontati poi ai magistrati della Dda di Catanzaro.

Tra i vari collaboratori di giustizia, che hanno riferito sulla vita carceraria cosentina ci sono Vincenzo De Rose, già condannato in via definitiva nel processo “Job Center“, e Francesco Noblea, uno di quei soggetti a cavallo tra il clan degli “zingari” e quello degli italiani. A loro è toccato descrivere i comportamenti di Francesco Patitucci, presunto capo della confederazione mafiosa tra Cosenza e Rende, e la divisione dei reparti di alta e media sicurezza della casa circondariale “Cosmai” di Cosenza.

Parla Francesco Noblea

I pm antimafia, coordinati dal procuratore Nicola Gratteri, inseriscono negli atti della maxi inchiesta il memoriale di Francesco Noblea, nel quale il pentito annota che «Francesco Patitucci in carcere è un boss. Quando giocava a pallone e aveva lui la palla, nessuno andava a prendergliela. Fuori non lo conosco, ma in carcere se dice “A“, è “A“. Venivano tutti i giorni a trovarlo Antonio Illuminato con u Tmax e ogni tanto Mario Oliveti con una bicicletta elettrica, mandava i saluti Roberto Porcaro tramite Antonio Basile. Veniva il cognato. Quasi tutte le sere gli sparavano batterie sotto il carcere. All’aria, se doveva stare senza maglia d’estate, stava« rivela Francesco Noblea.

«Come mi raccontò Danilo Turboli, che abita vicino a Porcaro» il clan cosentino “Lanzino-Patitucci” sarebbe “come una piramide: Francesco Patitucci è al primo posto, poi c’è Mario “Renato” Piromallo. Sotto Renato c’era Gianluca Marsico ma ora c’è Salvatore Ariello» e fa il nome anche di Roberto Porcaro, il cui sottoposto – a dire di Noblea – sarebbe stato Illuminato. Oggi le indagini, tuttavia, riferiscono che dopo Patitucci comanderebbe Porcaro e, a seguito degli arresti a Cosenza, nell’operazione “Testa di Serpente“, la guida criminale del gruppo degli italiani sarebbe passata, dopo la condanna di Patitucci nel duplice omicidio Lenti-Gigliotti, al duo Ariello-Illuminato. Noblea, inoltre, chiarisce che “la famiglia viene mantenuta e in carcere ti puoi prendere il lusso che appartieni a Patitucci che ti leccano…”.

Gli investigatori, a riscontro di quanto dichiarato dal collaboratore Noblea, in ordine alle notizie apprese in carcere da Danilo Turboli, hanno appurato un periodo di condivisione carceraria che va dal 13 giugno 2017, data di ingresso presso la casa circondariale “S. Cosmai” di Cosenza da parte di Noblea, dove Turboli si trovava già detenuto, il quale proveniva dagli arresti domiciliari, al 2 ottobre 2017 quando Noblea viene trasferito presso il carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro.

Carcere di Cosenza, chi comanda nei reparti (a dire di De Rose)

L’altro collaboratore di giustizia che “canta” ciò che sarebbe avvenuto nell’istituto penitenziario cosentino è Vincenzo De Rose. Il pentito sul punto afferma che «quasi tutte le mie detenzioni le ho trascorse al carcere di Cosenza; in quel carcere, tra i detenuti, all’alta sicurezza comandavano Francesco Patitucci, Mario Musacco, Salvatore “Sasà” Ariello e Umberto Di Puppo. Loro facevano anche picchiare dei soggetti se fuori si erano comportati male con qualcuno che interessava loro, se avevano “sgarrato”. Ultimamente Patitucci, tramite Marco Abbruzzese, mi aveva mandato a dire che con Francesco Noblea avremmo dovuto picchiare Mario Mazzei perché era al piano terra e aveva picchiato una guardia. Io poi sono uscito e non ne ho neanche parlato con Noblea». E ancora: «Alla media sicurezza comandavano i Banana, Marco Abbruzzese, in particolare, quando non c’era Marco, Celestino Abbruzzese; finché ci sono stato io non c’erano soggetti di fuori che comandavano, neanche i pugliesi; i reggini se la vedevano tra di loro».