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La sentenza di primo grado dell’inchiesta “Testa di Serpente”, non ha solo evidenziato le differenze giuridiche tra l’esistenza o meno della “confederazione” e la sussistenza dell’aggravante mafiosa relativa al sodalizio criminale “Lanzino-Patitucci” di Cosenza. Le motivazioni del gup Matteo Ferrante, infatti, hanno illustrato nel dettaglio le condotte degli imputati che hanno scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato, evidenziando come la prima parte dell’indagine sia stata caratterizzata dalla presenza di Roberto Porcaro, all’epoca dei fatti “reggente” del clan degli italiani, in quanto Francesco Patitucci si trovava in carcere per l’omicidio di Luca Bruni, processo che lo ha visto uscire assolto successivamente in secondo e terzo grado di giudizio.
‘Ndrangheta a Cosenza, le condotte del “gruppo Porcaro”
Il gup Ferrante, valutando gli elementi indiziari contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, scrive che «la cosca Lanzino gestisce in regine di monopolio le estorsioni, il traffico di droga e le usure, imponendo che una quota parte dei proventi siano devoluti al mantenimento dell’organizzazione». Questo assunto si riferisce ai capi d’imputazione dove compaiono, oltre a Roberto Porcaro, anche Carlo Drago e Danilo Turboli.
«Allora è giocoforza – sottolinea il giudice territoriale – ritenere che i singoli reati oggetto del presente giudizio non possono che essere stati commessi che al fine anche di agevolare tale sodalizio criminoso. Del resto, l’esistenza di tale nesso funzionale tra i singoli fatti illeciti oggetto del presente giudizio ed una regia occulta a sfondo chiaramente mafioso è emersa a più riprese nel corso della presente trattazione, legandosi in maniera complementare con le convergenti dichiarazioni in tal senso rese dai collaboratori di giustizia», i quali hanno indicato, a più riprese, la figura apicale di Porcaro.
Cosenza, il pentimento di Marco Paura e il “segreto di pulcinella”
Nell’altra parte dell’inchiesta, invece, si fa riferimento al gruppo dei “Banana” e ciò che intorno ad esso ruota, come la presenza prima del 2018, del pentito Celestino Abbruzzese, il quale aveva reso dichiarazioni accusatorie nei confronti dell’ex agente della Questura di Cosenza, Dario Brancaleone, al quale la Dda di Catanzaro, contestava i reati di rivelazione del segreto istruttorio e favoreggiamento.
Un’accusa, quella contro il poliziotto, che non ha retto già davanti al Riesame, nonostante gli elementi presenti nell’ordinanza di custodia cautelare fossero già in contrasto tra loro, come spiegato dalla nostra testata in un altro servizio. Nel caso di specie, sia le propalazioni della presunta persona offesa che le parole di “Micetto” e della moglie, Anna Palmieri, sono state ritenute non sufficienti per esprimere un giudizio di colpevolezza. I fatti, tuttavia, sono chiari.
Il pentimento di Marco Paura è giunto a meno di 24 ore dal blitz “Job Center”, settembre 2015, l’operazione contro il narcotraffico nel centro storico di Cosenza, ed era quindi impossibile che Brancaleone avesse rivelato a chicchessia che Paura avesse deciso di “saltare il fosso” nel periodo “maggio-giugno 2015”, senza dimenticare che l’opinione pubblica apprese dai quotidiani locali la collaborazione con la giustizia di Marco Paura, circa 48 ore dopo il blitz della Squadra Mobile. Insomma, lo sapevano tutti e non era affatto un “segreto”.
Circa il ritrovamento delle armi e della droga nel quartiere popolare di via Popilia, il gup Ferrante ha ribaltato l’assunto accusatorio, escludendo ogni responsabilità penale nei confronti di Colasuonno. Il processo ordinario, infine, è in corso di svolgimento presso il tribunale collegiale di Cosenza.