Arresti a Cosenza, dalle minacce “social” al pentito alla latitanza di Strangio: i retroscena dell’inchiesta
Zaffonte rivela ai magistrati di aver ricevuto un messaggio intimidatorio su Facebook, mentre gli investigatori ritengono che il criminale reggino abbia goduto della "protezione" di Michele Di Puppo
In ordine di tempo è uno degli ultimi criminali cosentini ad aver “saltato il fosso”, decidendo di collaborare con la giustizia. È il caso di Giuseppe Zaffonte, in passato “affiliato” al clan “Lanzino” di Cosenza, e operante nel territorio di Rende, agli ordini del gruppo capeggiato da Michele Di Puppo, di cui fanno parte anche Adolfo D’Ambrosio, Umberto Di Puppo e anche Marco D’Alessandro, unico irreperibile all’indomani del blitz scattato il 1 settembre su ordine della Dda di Catanzaro.
Zaffonte nei verbali d’interrogatorio resi ai magistrati antimafia è in fiume in piena. Ricostruisce “alla lettera” la formazione dei gruppi guidati da Roberto Porcaro, Michele Di Puppo e Mario “Renato” Piromallo, tanto da evidenziare già tre anni fa che tra Porcaro e Piromallo non correva buon sangue. Un fatto di cui ne abbiamo parlato in maniera più approfondita in un altro servizio, con Patitucci che ha raffreddato i “bollori” degli amici.
Altro aspetto interessante delle dichiarazioni di Zaffonte, sono i contatti tra i presunti associati. Rivela, ad esempio, che Marco D’Alessandro tutte le sere alle ore 20 si recava a casa di Michele Di Puppo, che alcuni componenti della presunta associazione mafiosa si lamentavano di Porcaro e Piromallo. Dice di conoscere, inoltre, i mandanti e gli esecutori di diverse estorsioni avvenute ai danni di commercianti e imprenditori della zona e comunica, tra le altre cose, di aver ricevuto minacce “via social” dopo che la criminalità organizzata era venuta a conoscenza del suo pentimento. Notizia che mediaticamente esce con l’inchiesta sull’omicidio di Giuseppe Ruffolo.
La vicinanza a Michele Di Puppo permette quindi agli investigatori di approfondire vari temi, tra cui quello della latitanza a Rose di Francesco Strangio, braccato il 14 febbraio del 2019 in una mansarda. I carabinieri annotano anche che circa un anno prima, il criminale reggino sarebbe scappato alla cattura, riuscendo a fuggire da un nascondiglio situato a San Martino di Finita. Poi prima dell’arresto, grazie alle intercettazioni, i militari dell’Arma, captano le conversazioni di Di Puppo con un uomo di San Giovanni in Fiore, a cui chiede una persona «seria» evidentemente per proteggere nel migliore dei modi, il “soggiorno” di Francesco Strangio.
Gli inquirenti arrivano alla conclusione che Di Puppo abbia usato il suo spessore criminale per favorirne la latitanza, individuando anche alcuni momenti prima del blitz, come la visita a un dentista della zona, e incriminano sul punto Marco D’Alessandro e Francesco Marchiotti, nome con cui Strangio si era presentato dall’odontoiatra. Una storia, quella della latitanza, che dimostrerebbe dunque la capacità della confederazione di controllare il territorio cosentino.