'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
'Ndrangheta a Cosenza, la pentita polacca: «Con Patitucci eravamo una cosa sola»
L’udienza odierna di “Reset” ha segnato il ritorno sulla scena processuale di Edyta Kopaczynska, 51 anni, vedova polacca del boss Michele Bruni e testimone diretta della rapida ascesa e dell’altrettanto repentina caduta della famiglia criminale di cui ha fatto parte per anni. La donna collabora con la giustizia dal 2012 e su imbeccata del pm Corrado Cubellotti ha ripercorso le fasi che, ben dodici anni fa, l’hanno indotta a cambiare pelle: «Dopo la morte di mio marito e di mio cognato Luca Bruni, il nostro clan si è sciolto. Si sono presi tutto. E allora come scelta di vita ho deciso di collaborare. Era il clan “Bella Bella”, ma in seguito ci siamo uniti con il clan degli zingari, con il clan di Patitucci e siamo diventati una cosa sola».
Il pm si è ingolosito e le chiesto di chiarire il senso di quell’espressione – «una cosa sola» – che rimanda direttamente al tema del processo: «Usura, estorsioni, si faceva tutto insieme. E gli imprenditori dovevano pagare», ha spiegato Edyta, traducendo da sé stessa. «La droga si poteva prendere solo da noi. E non si poteva spacciare senza la nostra autorizzazione. La conseguenza era che o ci davano i soldi o prendevano gli schiaffi». In seguito, l’avvocato Luca Acciardi le chiederà se l’accordo tra il suo gruppo e quello di Patitucci fosse poi tramontato. La risposta rimanda ai giorni più drammatici per la diretta interessata: «Dopo la morte di mio cognato Luca Bruni».
I suoi ricordi si fermano al 2010, data dell’arresto collettivo di “Telesis” che segna per il suo gruppo l’inizio della fine. «Fino a quel momento, la bacinella – la cassa, ndr – la gestivano mio marito Michele e Francesco Patitucci». Di Umberto Di Puppo rammenta solo che «faceva parte del clan Lanzino». Su Roberto Porcaro: «Ha fatto un po’ la bandiera: prima era con Domenico Cicero e poi è passato con Patitucci a fare tutto quello che diceva lui». Di Rosanna Garofalo, sostiene facesse «ciò che facevo io per mio marito, quando Patitucci era in carcere faceva da tramite tra lui e i suoi soldati». In seguito, su domanda dell’avvocato Laura Gaetano non riuscirà a datare questo ricordo. Non sarà l’unico.
Edyta, infatti, mostra più di qualche titubanza perché la memoria non l’aiuta, specie quando si tratta di attingere a piene mani dal suo passato criminale e da quello degli altri. Cubellotti non demorde e prova a stimolarle i ricordi. Un primo elenco di nomi non le dice nulla, ma a quello di Maurizio Rango ha un sussulto: «E chi se lo scorda. Ci ho avuto un bel po’ di disguidi. Mi odiava. Lui, Daniele Lamanna, Adolfo Foggetti hanno fatto un bel danno alla mia famiglia. Dopo che hanno ucciso mio cognato Luca Bruni, sono venuti a chiedermi dei soldi. E Rango mi ha cacciato anche di casa».
L’udienza si era aperta con le dichiarazioni spontanee dell’imputato Carmine Caputo in replica ad alcune affermazioni fatte in precedenza dal pentito Giuseppe Montemurro: «Faccio il lavoro di buttafuori da trent’anni. Non era il mio primo lavoro. Ho fatto l’autista di pullman, ho lavorato in una cooperativa. Quando Montemurro ha aperto l’agenzia io e i miei colleghi siamo stati costretti a lavorare con lui. Sono stato sempre molto robusto. Quando c’erano risse, le risolvevo da solo. Non è vero come dice lui che ho picchiato Marco Canino. Una sera c’erano persone a un tavolo che davano fastidio. Lo abbiamo cacciato fuori e lui si toglie la cinta e si lancia contro di noi. Abbiamo reagito. Il signor Canino si è lamentato con noi perché questa persona era seduta al suo tavolo. Nient’altro. Non ho mai incendiato nessuna macchina. La macchina l’ha incendiata lui e se n’è pure sempre vantato. Parecchie volte lo abbiamo accompagnato in giro, ma non è mai successo che sono andato con lui a casa di Roberto Porcaro. Con mio fratello Giuseppe i rapporti si erano interrotti. Sono ripresi nel 2021 quando mia figlia ha fatto 18 anni. Ho fatto sempre tanti lavori, e ora mia moglie si barcamena come può, con il risultato che mia figlia non può iscriversi all’università. Una figlia che dovrebbe laurearsi con 110 e lode, pensate come mi sento. Per fortuna in carcere mi fanno lavorare e quindi riesco a fare qualcosa per andare avanti».
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