Processo “Reset”, in aula la lezione criminale dei boss di Cosenza
Francesco Patitucci e Gianfranco Bruni si richiamano alle regole della 'ndrangheta per spiegare al giudice perché non sono più loro a comandare
La ‘ndrangheta, quella vera, ha fatto capolino venerdì scorso nell’aula bunker di Catanzaro mentre era in corso il processo “Reset“. A portarla in udienza è stato Francesco Patitucci, il boss di Cosenza che, al pari di altri imputati, ha scelto di essere giudicato in abbreviato. Le sue dovevano essere solo dichiarazioni spontanee, rese a margine di un’udienza interlocutoria, ma alla fine si sono rivelate una vera e propria lectio criminalis.
Il boss “posato”
Patitucci ha schiuso una finestra sui codici oscuri della malavita. Per i presenti è stato come affacciarsi sull’orlo dell’abisso. «Le regole ci sono e vanno rispettate», ha detto con riferimento al proprio ambiente. «Io le conosco» ha aggiunto con tono quasi ieratico, chiarendo poi dove volesse andando a parare: «Quando una persona è in carcere, si dice che “viene posata”, cioé non ha più nessun potere là fuori. Se un capo è all’esterno, decide sia le strategie che i reati da commettere. Se è in carcere, invece, non ha diritto di mettere parola su ciò che accade all’esterno. Quando sono stato carcerato, io non decidevo nulla. Ma quando ero libero, l’ultima parola era la mia». Un tentativo di fissare dei paletti, forse di circoscrivere il recinto delle proprie responsabilità a partire da una data, il 5 dicembre del 2019, giorno della sua scarcerazione, dopo tre anni passati dietro le sbarre. «Quando sono stato libero, e quando mi incontravo con i miei buoni amici Michele Di Puppo, Salvatore Ariello e Renato Piromallo, parlavamo di reati. Perché, sì: abbiamo commesso degli illeciti. Ed ero io a decidere».
Ecce homo
Niente infingimenti, dunque, o tentativi di nascondersi dietro a un dito. Del resto, troppi pentiti lo accusano. E troppo schiaccianti sono alcune intercettazioni che lo riguardano. “Reset” a parte, però, quella del negare l’evidenza a tutti i costi è una prerogativa a cui il diretto interessato ha rinunciato ormai da anni. Prova ne è il fatto che, prima di autodefinirsi boss posato, ha ammesso ancora una volta «di aver fatto parte di un’associazione mafiosa»; anzi, di essere stato «a capo di un’associazione mafiosa», salvo precisare poi di aver mai voluto far parte «di un’associazione confederata». Che poi è il tema del processo nonché la cifra di una linea difensiva, la sua, che assumerà sostanza il prossimo 7 ottobre, in concomitanza con le arringhe dei suoi difensori Luca Acciardi e Laura Gaetano. Per quel giorno, Patitucci ha annunciato il suo personale “ecce homo”: «Prenderò la parola sui reati di cui sono accusati. E’ vero, molti di quei reati li ho commessi».
Parla anche Gianfranco Bruni
Dopo di lui, anche Gianfranco Bruni, suo vecchio compagno d’arme, ha scelto di affrontare di petto la situazione. Con Patitucci ha condiviso la stessa trafila criminale: entrambi soldati semplici del vecchio clan Pino-Sena, poi alti gerarchi nella rifondazione a guida Ettore Lanzino, infine capi riconosciuti nel periodo di reggenza diarchica del gruppo. Più intimiste le riflessioni da lui consegnate, due giorni fa, all’aula. «So benissimo che non troverò la libertà e che morirò in carcere» ha affermato al microfono Bruni, ergastolano fin dal 2011. «Ciò che mi dispiace, però, è di non essere stato creduto in merito alla vicenda Lenti-Gigliotti». “Tupinaru”, questo il suo nom de crime, è imputato insieme a Gianfranco Ruà anche per favoreggiamento proprio nei confronti di Patitucci, avendo cercato di scagionare quest’ultimo dalla partecipazione a quel duplice omicidio del febbraio 1986. «Forse – aggiunto – se avessi detto altro, non mi sarei trovato imputato di associazione mafiosa».
Si è poi definito inattuale come mafioso e per farlo ha preso prima le distanze dagli oltre duecento suoi coimputati – «Conosco solo Patitucci, Ruà e Lanzino. Ho commesso reati solo con loro» – e poi si è richiamato anche lui alle regole di ‘ndrangheta. Non a caso chi sostiene che gli affiliati lo portino in copiata nel ruolo di capo società, ha risposto che «quando una persona prende l’ergastolo, perde qualsiasi tipo di potere e di influenza. Se fosse vero che sono un capo, inoltre, mia moglie per vivere non sarebbe costretta a svolgere tre lavori, dignitosi ma umili».