‘Ndrangheta a Cosenza, Renato Piromallo “seppellisce” il clan Lanzino
Processo "Reset", il presunto viceboss minimizza le accuse mosse a lui e agli altri imputati: «Dal 2014 siamo solo una banda di quartiere»
Il clan Lanzino è esistito «e io ne ho fatto parte». Questo, però, fino dal 2014. Dopo l’operazione Terminator, infatti, diventa «una banda di quartiere». O meglio ancora, un gruppo di «scappati di casa». In tal senso, la grande operazione antimafia Reset, battezzata nel 2022, sarebbe solo un inganno del tempo e del destino. Perché tutto «era stato già resettato otto anni prima». Concetti che Mario “Renato” Piromallo ha sviscerato lo scorso 7 ottobre nell’aula bunker di Lamezia durante il maxiprocesso contro le cosche cosentine. È stato lui il primo a prendere la parola in aula nel corso di un’udienza caratterizzata dal torrente di dichiarazioni spontanee di altri imputati. Il presunto boss ha fatto qualche ammissione, ha rivendicato il proprio passato criminale, ma soprattutto, ha tentato di ridimensionare l’attualità che lo vuole come uno dei sette viceré della confederazione guidata da Francesco Patitucci.
«La piramide non esiste più»
Nulla di tutto ciò per il diretto interessato. A suo avviso, «la piramide che esisteva nel clan Lanzino fino al 2011 è stata capovolta. Eravamo tutti in una posizione orizzontale, ognuno faceva il suo. Io certamente qualche cosa l’ho combinata, ma se ho combinato qualcosa l’ho combinata per me, né per Patitucci e né per nessuno». A dargli l’input verso lo “sciogliete le righe”, nel 2014, sarebbe stato Roberto Porcaro. «Ero appena uscito dai domiciliari e lui mi dice che c’è stata una scissione di tutto e che ognuno doveva stare per conto suo». Per come la vede lui, insomma, da quel momento in poi «se qualcuno fa reati, fa reati per sé stesso. Ognuno si mette i soldi in tasca per conto proprio».
Amici e “tragediatori”
Attribuire a qualcuno le colpe altrui con il risultato di innescare reazioni a catena, violente e spesso imprevedibili. In gergo criminale si chiamano tragedie e Piromallo sostiene di esserne stato vittima nel 2015. In quel periodo, infatti, si presenta al cospetto di Patitucci e lo trova «con i denti di fuori perché i miei simili armavano tragedie su di me. Dicevano che avevo commesso una rapina in un periodo in cui ero in carcere. Gli ho detto “ma che ti devo portare, il certificato di detenzione?” e allora si è convinto. Con Patitucci ho un rapporto di amicizia che non ho mai rinnegato».
«Se questa è una Confederazione…»
Per la Dda, la parola magica è «Confederazione». Per Piromallo, invece, è un totem da abbattere. Non a caso, ha fatto accenno alle liti tra lui e Porcaro documentate dalle indagini, ai pestaggi incrociati dei rispettivi uomini di fiducia per introdurre quella che a suo avviso è un’evidenza: «A non sembra che siamo tutti uniti». Per rafforzare il concetto ha preso le distanze dai singoli gruppi che, nel teorema accusatorio, formano la famigerata confederazione. In primis il gruppo degli zingari, in particolare quello capeggiato dai fratelli Abbruzzese “Banana”. «Io con loro non ho fatto mai nessun tipo di reato – ha affermato – né con loro e né con gli altri zingari. Se gli Abbruzzese hanno commesso reati, certamente li pagheranno, ma se devono pagare un’associazione perché sono praticamente sotto il dominus Patitucci e Lanzino a mio avviso lei, signor presidente, troverà tanta fatica a emettere una sentenza del genere». Altra menzione per il gruppo di Roggiano, su cui si è espresso il pentito Roberto Presta che, però, «non ha mai avuto a che fare con Cosenza. Una volta sola viene a Cosenza, rubano la macchina a una sua parente e poi le chiedono mille euro per la restituzione. E questa è una confederazione?».
Le «cialtronate» dei pentiti
Buona parte delle sue invettive le ha riservate proprio ai pentiti che lo accusano. Da Silvio Gioia che «dovrebbe spiegare dove mi ha visto, dato che ero sempre in carcere», a Luciano Impieri «che su di me dice di tutto e di più perché pretendeva uno stipendio che non gli ho mai dato» passando per quelli di più recente conio come Francesco Greco: «Era intercettato con i trojan. Se fosse venuto qualche volta da noi, sicuramente sarebbe risultato. E poi perché avrei dovuto mettermi a disposizione di un amico di Porcaro?». Più in generale, quello che dicono su di lui i collaboratori di giustizia sarebbero solo «cialtronate». Una su tutte: il ruolo apicale attribuito a Silvia Guido, eventualità che Piromallo ritiene quasi incommentabile: «Cioè, io andavo a fare reati e poi dovevo portare i soldi a Silvia Guido?». L’unico che poteva dire qualcosa di concreto, secondo lui, era proprio il marito della donna, Roberto Porcaro, che difatti «ha detto una parte di verità e in parte ha imbrogliato con carica e scarica, cosa che fanno tutti i collaboratori». E sempre a proposito di pentitismo. Quella è una traiettoria esistenziale che Mario “Renato” Piromallo esclude di poter disegnare per sé stesso «Ma non perché sono un uomo duro – ha precisato – Perché ritengo giusto che se uno fa i reati non è che l’istituzione mi consegna le chiavi del carcere così esco io e faccio entrare altre persone. Ritengo che chi fa i reati deve rimanere a scontare la pena, solo questo qua».
Processo abbreviato “Reset”, le richieste della Dda
- Antonio Abbruzzese (classe 1975), difeso dagli avvocati Giorgia Greco e Cesare Badolato CHIESTI 7 anni e 6 mesi
- Antonio Abruzzese alias Strusciatappine, difeso dall’avvocato Mariarosa Bugliari CHIESTI 14 anni
- Antonio Abbruzzese (classe 1984) difeso dagli avvocati Antonio Quintieri e Filippo Cinnante) CHIESTI 20 anni
- Celestino Abbruzzese, difeso dall’avvocato Simona Celebre CHIESTI 6 anni
- Fioravante Abbruzzese, difeso dall’avvocato Cesare Badolato CHIESTI 14 anni
- Francesco Abbruzzese, difeso dall’avvocato Antonio Quintieri CHIESTI 12 anni
- Luigi Abbruzzese, difeso dagli avvocati Cesare Badolato e Antonio Sanvito CHIESTI 20 anni
- Marco Abbruzzese, difeso dagli avvocati Cesare Badolato e Antonio Sanvito CHIESTI 20 anni
- Nicola Abbruzzese, difeso dagli avvocati Cesare Badolato e Antonio Sanvito CHIESTI 20 anni
- Rocco Abbruzzese, difeso dall’avvocato Mariarosa Bugliari CHIESTI 12 anni
- Saverio Abbruzzese, difeso dagli avvocati Antonio Quintieri e Matteo Cristiani CHIESTI 10 anni e 8 mesi
- Gianluca Alimena, difeso dall’avvocato Emiliano Iaquinta CHIESTI 2 anni
- Claudio Alushi, difeso dall’avvocato Angelo Nicotera CHIESTI 18 anni
- Salvatore Ariello, difeso dall’avvocato Fiorella Bozzarello CHIESTI 20 anni
- Luigi Avolio, difeso dagli avvocati Cesare Badolato e Raffaele Brescia CHIESTI 10 anni e 8 mesi
- Ivan Barone, difeso dall’avvocato Rosa Pandalone CHIESTI 8 anni
- Giuseppe Belmonte, difeso dagli avvocati Filippo Cinnante e Gaetano Maria Bernaudo CHIESTI 8 anni e 2 mesi (clicca su avanti per leggere i nomi degli imputati del processo abbreviato di “Reset”)